
“… chi cerca trova sempre quello che non sta cercando”. E l’unica cosa che, in questo pur meritevole esercizio noi troveremo sempre e comunque, altro non è che la misura dei nostri stessi limiti.”
Il Prof. Antonio Gottarelli, Direttore del Museo Civico Archeologico di Monterenzio, ci ha mandato una nota di risposta dopo un articolo, pubblicato sul notiziario Valli Savena Idice di marzo 2017 (https://hemingwayeditore.wordpress.com/vallisavenaidice/) che rendeva nota la posizione dell’Avv.to Cesare Agostini, uno dei due scopritori della strada Flaminia Militare, sulla strada Flaminia Minor, che egli considera “inesistente”. Ci è parso utile pubblicare qui la lettera del prof. Gottarelli, in modo che gli argomenti di entrambi gli studiosi siano di dominio pubblico (redazione hemingway editore).
Gent.le Direttore,
leggo con stupore il contenuto della lettera a lei inviata da Cesare Agostini, ben conoscendo ogni dettaglio della vicenda, oramai più umana che scientifica, della, da lui battezzata, “Flaminia militare”. La pregherei di accogliere questa mia risposta, anche a nome delle Amministrazioni pubbliche chiamate in causa in maniera così irrispettosa. È inoltre oramai intollerabile che Agostini continui ad utilizzare spazi per beffeggiare gli archeologi professionisti che da 50 anni si occupano di ricerche ben più importanti ed impegnative di questa.Vengo al punto. La scomposta lettera di Agostini nasce da una incontestabile verità: il nome “Flaminia militare”, egli afferma, non può essere utilizzato per la strada che attraversava il crinale Idice-Sillaro, perché questo sarebbe un falso storico. Attenzione alla trappola insita nella provocazione, perché Agostini è un avvocato e per gli avvocati le parole hanno un peso, più che i fatti stessi. L’affermazione è infatti incontestabile, perché quel nome, per chi studia professionalmente la materia, non esiste. Gli studi sulla via consolare Arezzo-Bologna di età moderna nascono infatti con le osservazioni di natura topografica e toponomastica del Prof. Nereo Alfieri, che battezzò per primo quella strada con il nome di “Flaminia minore” ed è consuetudine di rispetto e correttezza tra gli studiosi, pur sostenendo ipotesi diverse, mantenere in seguito tale dicitura.
Questo punto è centrale, perché la correttezza ed il rispetto non furono lo scrupolo che mosse le pur meritevoli iniziative dei nostri, allora, giovani esploratori, dato che la prima cosa che fecero, prima ancora di capire cosa stessero realmente trovando, fu proprio cambiare il nome alla strada oggetto delle ricerche: da “Flaminia minore” a “Flaminia militare”. Quale fu il motivo di tale scelta? La risposta è ovvia: la grande scoperta, prima ancora di essere dimostrata, doveva essere l’appagamento delle loro ambizioni personali di scopritori. L’aspetto psicologico di tale scelta, da subito irrispettosa delle tesi altrui, è sostanziale per comprendere cosa accadde in seguito. Sì, perché da quel primo “peccatuccio” di vanità, i nostri non sarebbero più potuti tornare indietro, salvo rimetterci la faccia. Dunque, tutto quello che sarebbe potuto venire in seguito doveva necessariamente dimostrare l’affermazione di partenza, rovesciando ogni scrupolo di metodo sulle evidenze oggettive che si andavano componendo. La tesi era da subito chiara e poggiava su una serie di passaggi logici che risultavano essere per noi archeologi del tutto errati. Il primo: “ciò che stiamo trovando è un lastricato isolato e sepolto e dunque è un lastricato antichissimo” (primo errore); “…in quanto lastricato antichissimo è sicuramente di età romana” (secondo errore): “…essendo un lastricato romano allora si tratta dell’unica strada che attraversava l’Appennino” (terzo errore); “…essendo la via romana che attraversava l’Appennino, allora questa è la Arezzo-Bologna costruita dal console Flaminio” (quarto errore): “…ed essendo questa la Arezzo-Bologna costruita dal console Flaminio, allora la strada ipotizzata da Alfieri sul crinale Idice – Sillaro non esiste”. Quinto errore e affermazione categorica contenuta nella lettera.
Quello che risultava nel frattempo a chi si occupava “accademicamente” di quel tema di ricerca era, punto per punto, l’esatto contrario:
1) Le strade romane, in ambito extraurbano, non erano lastricate ma selciate e inghiaiate, salvo piccolissimi tratti in forte pendenza percorribili a bassa velocità. Si crede davvero che si potessero lastricare 200 chilometri di strada? Ha mai provato Agostini a percorrere al galoppo una strada lastricata? Che ne sarà delle caviglie del cavallo? Si ha idea dell’effetto che fa la lastricatura sulle ruote in legno con cerchiatura di un carro che va a media velocità? Oggi sappiamo che in Appennino esistevano numerosi tratti lastricati, uguali in tutte le età, e questi venivano solo realizzati in quei brevi tratti, prossimi a centri di attività economiche come monasteri, mulini o fornaci, che erano raggiunti da carri fortemente appesantiti dal carico e di cui si voleva evitare lo sprofondamento. Dunque, l’equazione lastricato=strada antica e strada antica=strada romana è un’equazione inesistente ed è sempre richiesta una verifica stratigrafica per trovare elementi datanti che, nel caso in esame, non è mai stata fatta (come mai?).
2) Il settore appenninico tra Idice e Reno era attraversato sicuramente da tre strade romane, costruite in tempi diversi con spostamento da est verso ovest: dalla prima che è di penetrazione militare da Arezzo verso Bologna, la “Flaminia minore” appunto, a quella che consegue alla fondazione di Florentia, come sviluppo della Cassia tra Firenze e Bologna e che verrà in età tarda chiamata “Claudia”, e, una terza, dallo sviluppo della stessa Cassia tra Pistoia e Modena, detta “Cassiola”. Dunque, l’equazione strada romana appenninica=Flaminia minore sarebbe comunque errata, ed è anzi dimostrato che eventuali resti sulla Bologna-Firenze andrebbero attribuiti ad una via di età imperiale detta “Claudia”.
Tutto questo è sostenuto da prove che, se pure perfettibili, sono comunemente considerate decisive da tutti gli studiosi del mondo, ma non dai nostri novelli archeologi, quali:
1) la permanenza di serie di toponimi di origine miliaria in uscita dalle città e in particolare a sud di Bologna e a nord di Firenze e di Arezzo (vd. “Toponimi di origine miliaria lungo la via Flaminia Minore”, in “Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna”, vol. XXXVI (1986), Bologna 1988, pp.105-132; “I collegamenti Bologna-Firenze in etа romana: la via Claudia di età Imperiale”, in “La viabilitа tra Bologna e Firenze nel tempo- Problemi generali e nuove acquisizioni”, Atti del Convegno, Firenzuola-S.Benedetto Val di Sambro, 28 Settembre-1 Ottobre 1989, Bologna 1992, pp.109-126.);
2) la presenza di un incrocio sulla via Emilia di età repubblicana con una via transappenninica, testimoniato, tra Castel S. Pietro e Ozzano Emilia da due cippi milliari ravvicinati (vd. “Le Vie Publicae Romane dell’Appennino bolognese e i cippi miliari di M.Emilio Lepido. Nuove ipotesi sul tratto terminale della Bologna-Arezzo di etа repubblicana”, in “Il Carrobbio”, vol.XV (1989), pp.179-190);
3) la straordinaria rilevanza data dalla Tabula Peutingeriana, la più antica rappresentazione pseudocartografica di tutte le strade dell’impero, al settore tra Reno e Idice, con tre strade trasappenniniche indicate e con la Flaminia minore rimarcata dal nome dei torrenti Isex (idice) e Silarum (Sillaro) (vd. “La Tabula Peutingeriana e i collegamenti stradali tra la VII e la VIII Regio. Il Segmentum IV.4 e le vie Flaminia “minore”, Claudia e Cassiola”, in “Il Carrobbio”, 1992, pp.230-241.4);
4) non ultima, la rilevanza demografica dei settori appenninici attraversati dai diversi percorsi in età preromana e romana, con indici altissimi per le valli del Reno e dell’Idice e con, in quest’ultimo caso, la straordinaria presenza di villaggi d’altura abitati da guerrieri celti (Monterenzio Vecchio e Monte Bibele) che indicano una linea di difesa contro l’avanzata romana proprio in quel settore dove si è ipotizzato il passaggio della via “Flaminia minore”(“Monterenzio e la valle dell’Idice: Archeologia e Storia di un territorio”, Bologna 1983; “Appenninica.Storia delle ricerche archeologiche nella valle dell’Idice”, Bologna, Te.m.p.l.a., 2013; “Archeologia nell’alta valle dell’Idice. Guida turistica, archeologico naturalistica”, Bologna, Te.m.p.l.a., 2015).
Si immagini, in tutti questi anni, con quale benevolenza gli archeologi, fra cui io, che lavoravano sul Monte Bibele e a Monterenzio Vecchia, hanno assistito, senza mai infierire, alla incredibile serie di iniziative pubblicistiche volte a dimostrare quello che, per noi, era ormai cosa assodata, e cioè che nulla di archeologico né di topografico sosteneva quella tesi. Ma oggi sappiamo, e ce lo ha insegnato con grande lungimiranza lo stesso Agostini, che ripetere mille volte una cosa non vera, negando mille volte ciò che è palese ed evidente, è metodo che comunque paga, in quello che però non è più un libero esercizio delle opinioni, ma un puro gioco del consenso esercitato a fini personali.
E il segno si supera proprio quando, al di là delle rispettive, e pur sempre legittime opinioni, si giunge ad offendere la verità delle cose con una spregiudicatezza che rasenta l’arroganza. Sì, perché leggo, riferito al percorso della “Flaminia minore” tra Claterna e la Raticosa, che “questo contorto ed inedito itinerario non è assolutamente proponibile, neppure come mera ipotesi di studio, se non si vuole mistificare la realtà storica e le risultanze di numerosi rinvenimenti archeologici che comprovano il passaggio della Flaminia Militare sulla dorsale fra il Savena e Setta-Sambro fino al passo della Futa.” Capito? Della bibliografia precedentemente indicata e di 50 anni di studio nella valle dell’Idice da parte di studiosi professionisti, il nostro Agostini se ne fa un baffo perché egli è custode “della realtà storica” e quel percorso “non è proponibile nemmeno come mera ipotesi di studio”: ci dice in sostanza cosa è proponibile e cosa no, e questo per i numerosi rinvenimenti archeologici, di cui ovviamente è lui l’unico custode e conoscitore, “che comprovano il passaggio della Flaminia Militare sulla dorsale fra il Savena e Setta-Sambro”. E quali sarebbero questi rinvenimenti? I lastricati non datati di cui sopra e una moneta romana trovata in un bosco. Ma egli va oltre, offrendosi al ridicolo, aggiungendo “che il percorso romano in transito nella Valle dell’Idice sia stato ipotizzato intenzionalmente e benevolmente per dare un appiglio a quelle amministrazioni locali di promuovere il turismo, attirando gli escursionisti lungo la dorsale fra Idice e Sillaro ove nulla c’è da vedere di “romano”, ma soltanto numerosi caratteristici “calanchi”. Da non crederci; Claterna, 34 tracce di insediamenti romani sui crinali, la necropoli celtica di Monterenzio Vecchio, l’antistante Monte Bibele, con necropoli, stipe votiva etc., per lui sono “caratteristici calanchi”. Beh, qui si rende conto di avere veramente esagerato, in quello che è un vizioso esercizio retorico a cui è abituato e che nulla ha a che vedere con la verità delle cose. È una provocazione, e ora si capisce dove vuole arrivare: “Se le Comunità della Valle dell’Idice vogliono promuovere il turismo sul loro territorio dispongono già di tre luoghi veri e di grandissimo interesse storico-archeologico da valorizzare: le vestigia dell’antica Claterna, la Necropoli celtica di Monte Bibele ed il relativo Museo Fantini. Devono quindi rassegnarsi a dimenticare per sempre la c.d. Flaminia Minor nata da una mera ipotesi accademica, risultata poi inesistente, essendo stato dimostrato che l’unica transappenninica di C. Flaminio è stata costruita su un altro crinale”. Praticamente, si dice, avete tutta quella roba archeologica da far visitare, lasciateci almeno il pistolotto della “Flaminia militare”. Ma qui l’avvocato si scompone e perde colpi, con dichiarazione intimidatoria. Le pubbliche amministrazioni devono rassegnarsi e dimenticare per sempre quella che è stata una mera ipotesi accademica, perché, udite, udite, la “Flaminia minore” dell’Idice non è mai esistita e mai esisterà.
Ebbene, qui mi sento direttamente chiamato in causa, perché in questo scherzo che sta andando avanti da troppi anni, la mera ipotesi accademica è, caro Agostini, esattamente ciò a cui gli enti pubblici sono obbligati per legge a dare credito. Queste amministrazioni pubbliche devono rendere conto di come i soldi pubblici vengono spesi e, giustamente, trattando di materia archeologica, si affidano ad altri pubblici ufficiali che, all’interno delle competenze loro attribuite dallo Stato, certifichino “le realtà storiche” a cui destinarli. Da oggi “la mera ipotesi accademica” non ha più intenzione di essere beffeggiata da chicchessia e ciò significa che mentre l’ipotesi della “Flaminia minore” è più che giustificata, molto meno lo è quella della fantomatica “Flaminia militare”. Anzi, dalle risultanze agli atti, se a quella via si vorrà proprio dare un nome, quello dovrà essere di “Via Claudia”, secondo quanto attestato dalle fonti storiche.
Un pubblico ufficiale deve pensare all’interesse generale, e tale ambito va esteso anche alla corretta attribuzione del concetto di bene culturale. Cosa vieta allora di considerare entrambe le direttrici come luoghi da valorizzare? Perché non ammettere che la “Flaminia minore” passi tra l’Idice e il Sillaro e che un’altra direttrice, ugualmente importante, detta anticamente via “Claudia”, passi per il Setta-Savena? La verità è che l’unica cosa che lo vieta è quel piccolo peccato di superbia iniziale di aver voluto ribattezzare la “via Claudia” “via Flaminia militare”, per cui ora, con tutto quello che è stato scritto, non si può più tornare indietro e ammettere l’errore.
Agli occhi di un professionista della ricerca non ci sarebbe nulla di male a farlo, perché siamo in presenza del tipico errore che tutti abbiamo fatto nei primi, entusiasmanti, passi della libera ricerca: quello cioè di credere al detto “chi cerca trova”, pensando che ciò significasse che ”chi cerca trova quello che sta cercando”. Così non è, e noi archeologi sappiamo bene, attraverso un lungo corso di studi e di esperienze sul campo che merita ora rispetto, che la verità è l’esatto contrario, perché, in verità, “chi cerca trova sempre quello che non sta cercando”. E l’unica cosa che, in questo pur meritevole esercizio, caro Agostini, noi troveremo sempre e comunque, altro non è che la misura dei nostri stessi limiti.
Cordialmente,
Prof. Antonio Gottarelli
Direttore Museo Civico Archeologico di Monterenzio e dell’Area d’Interesse Archeologico Naturalistico di Monte Bibele; Direttore Centro di Ricerca Te.m.p.l.a; Dipartimento di Storia Culture Civiltà – Alma Mater Studiorum – Università di Bologna – P.zza S. Giovanni in Monte n. 2 – 40124 Bologna.